domenica 10 maggio 2009

POLITICA ESTERA


La grande sfida di Obama

L'Afganistan è il più grosso problema che il presidente americano si troverà ad affrontare nei prossimi anni, e per la stabilità in Asia,molto dipenderà dalla riuscita pacificazione dell'area.

Il presidente Barack Obama lo sa bene e infatti lo aveva già ribadito prima delle elezioni: il Pakistan e l’Afganistan sono due paesi che si trovano ai primi posti nelle priorità del suo programma di politica estera. E fra queste due si inserisce la potenza indiana, che letteralmente diventa l'ago della bilancia di una situazione potenzialmente molto esplosiva. Senza contare la sempre più grande influenza che l’Iran ha nella zona, e i suoi buoni rapporti con tutte le nazioni prima citate.

Non è difficile capire il perché. Sette anni dopo che i Talebani furono privati del potere, il movimento islamico ha ristabilito la sua presenza nel 70% dell’Afghanistan, e in parte lo controlla. Lo stesso vale per il Pakistan, anche se con sfumature diverse, che vacilla sull’orlo del collasso per una faida tribale all'interno del paese, e anche a causa della rinascita talebana che rende i suoi confini altamente instabili: la sua frontiera nord-occidentale è invasa da militanti islamici, inclusi un gruppo autoctono talebano e una rinvigorita al-Qaeda.
Secondo i maggiori esperti militari, i più grossi problemi provengono dai “rifugi” dei Talebani e di Al-Qaeda nelle indomabili aree tribali del Pakistan,nel confine afghano: secondo la NATO e la CIA, sono questi campi di addestramento quelli che contribuiscono di più all'imponente afflusso di combattenti stranieri in Afganistan.
Una prima mossa della nuova amministrazione americana, in particolar modo voluta dal neo-presidente, è stata quella di incrementare ulteriormente il numero di soldati nel teatro di guerra afgano, portandoli a 52.000
effettivi; ma tutto ciò potrebbe non comportare un reale miglioramento della situazione.

All'epoca della guerra sovietica, Mosca comprese che l’impossibilità di colpire le basi di rifornimento ed i campi di addestramento del nemico rendeva inutile un semplice aumento di forze. I guerriglieri afghani morti venivano rimpiazzati da altri. Interi gruppi di questi venivano dal Pakistan e da altre nazioni amiche, portando armi americane, cinesi e sovietiche (ottenute da alcuni ex alleati dell’Unione Sovietica) e tutto ricominciava da capo.
Ciò che sta accadendo adesso è quasi esattamente la stessa cosa. Gli Stati Uniti stanno combattendo contro una guerriglia sostenuta dall’estero, dall’Iran e dal Pakistan. Non possono eliminare le sue basi all’estero e, soprattutto l'attuale amministrazione, non può permettersi di andare a scovare i terroristi in qualsiasi parte del mondo (almeno non come teorizzava l'amministrazione Bush). Anche se questa teoria non coincide con l'attuale aumento delle truppe USA che servono per impadronirsi nuovamente, e mantenendone il controllo, del territorio ceduto ai ribelli. Oltre tutto, nonostante anni di risultati infruttuosi, si continua con la strategia già più volte sperimentata negli ultimi anni in Afghanistan e in Pakistan, ciòè la controversa politica dei “drone” di George Bush: missili sganciati da aerei nelle aree tribali senza pilota della CIA, contro presunti “bersagli” di al-Qaeda e dei Talebani, con tutte le vittime civili ed il rancore che ciò scaturisce nella popolazione. Nonostante l’indubbio vantaggio militare, tutto ciò ha anche dimostrato che combattere una guerra, insurrezione terroristica o resistenza popolare, non significa semplicemente vincere una battaglia sul campo, ma anche e soprattutto assicurare la pace tramite la ricostruzione delle infrastrutture e del tessuto sociale distrutto dal conflitto. Scacciare i Talebani verso il confine con il Pakistan è una cosa, ma sradicarli completamente e metterli definitivamente fuori gioco è tutta un'altra questione. La vittoria, in questo senso, può essere raggiunta solo distruggendo il terreno culturale in cui essi prosperano: l’odio per l’invasore, la povertà e l’ignoranza.

A novembre il primo ministro pachistano Youssef Raza Gilani aveva “sperato” che Obama intendesse porre fine al “controproducente” metodo dei drone. I segnali attuali indicano che il presidente potrebbe incrementare queste azioni se il Pakistan dovesse “fallire nell’intraprendere azioni” contro i Talebani e al-Qaeda. Potrebbe indicare un futuro irrigidimento dei rapporti tra Washington e Islamabad, anche se l'alleanza strategica è sempre un capisaldo dei rapporti fra le due nazioni. Infine, ma non per importanza, c'e' il nodo cruciale del Kashmir, su cui si sono consumati decenni di lotta intestina fra India e Pakistan.
Obama sa bene che risolvere il problema del Kashmir significherebbe trovare una stabilità ai rapporti tra due potenze atomiche dell'Asia. Aveva infatti dichiarato prima della sua elezione:“Dovremmo cercare di risolvere la crisi del Kashmir in modo che il Pakistan possa rimanere concentrato…non sull’India, ma sui quei miliziani al confine”.
Resta da vedere come l'India saprà muoversi nei rapporti con il turbolento vicino, soprattutto dopo la pesante ombra di responsabilità che è caduta su Islamabad, nei recenti sanguinosi attacchi terroristici di Mumbay.

Oltre tutto, il presidente americano non può non tener conto della grande considerazione che Teheran ha nell’area e i suoi buonissimi rapporti con i vicini, comprese la Cina e la Russia. Da questo punto di vista la questione nucleare iraniana diventa sempre piu’ una questione urgente da risolvere.

Nino Orto

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