mercoledì 18 novembre 2009

Resoconto Assemblea di Facoltà

Gli studenti e le studentesse delle facoltà di Sociologia e Scienze delle Comunicazione, nel tentativo di dare continuità alla mobilitazione riguardante le problematiche relative alla 133, alla sua attuazione e ai primi effetti che sta producendo all´interno del sistema universitario, si appellano cortesemente all´intero corpo docenti per la realizzazione di un progetto di trasversale partecipazione. Volevamo creare un momento di collaborazione invitando, con l´auspicio di una larga adesione, i docenti e i ricercatori interessati a dedicare alcune lezioni alla problematizzazione e alla sensibilizzazione in merito alla suddetta legge 133 e al nuovo disegno di legge; tale progetto potrebbe consistere in un dibattimento aperto in seguito ad un intervento del docente durante le proprie ore di lezione ordinarie. Questo incontro formativo, richiederebbe ai docenti di analizzare durante una lezione, contestualizzando rispetto alle relative specificità, il contenuto della riforma anche nei suoi aspetti più controversi. Data la disponibilità di alcuni docenti e la nostra impossibilità acontattare individualmente tutti i componenti, si invita l´intero corpo a prendere in considerazione la proposta che in seguito ad un primo momento costruito a livello particolare nelle diverse ore di lezione ordinarie, si concluderà in una giornata dedicata a diverse attività culturali. Tale evento vorrà essere un´occasione di apertura alla società civile con iniziative pubbliche, che consisteranno in seminari, proiezioni, spettacoli e dibattiti articolati sia in momenti critici sia ludici e ricreativi,volti a valorizzare un momento di libera espressione e riflessione. Affinché sia possibile la concreta realizzazione dell´intero progetto chiediamo cortesemente di formalizzare le adesioni lasciando la propria disponibilità alla segreteria, al Preside o alla commissione che si incaricherà dell´organizzazione di tali eventi. Ringraziamo della cortese attenzione a disposizione delle iniziative l´assemblea delle facoltà di Sociologia e Scienze della Comunicazione.

venerdì 6 novembre 2009

RIFLESSIONI DI UNA CITTADINA


Sono perplessa. Come molti sanno, lo scorso 13 Ottobre è stata bocciata la proposta di legge sull'omofobia presentata da Paola Concia, Anna Rossomando, Donatella Ferranti e Cinzia Capano. La Camera ha, infatti, accolto la pregiudiziale di costituzionalità presentata dall'Udc. I motivi sono i seguenti: secondo i suoi oppositori si violerebbe in primis l'articolo 3 della Costituzione italiana, ovvero il principio di Uguaglianza, poiché chi subisce violenza a causa dell'orientamento sessuale riceverebbe un trattamento privilegiato rispetto a chi “subisce violenza tout- court” (Testo Unificato Introduzione nel codice penale della circostanza aggravante inerente all'orientamento sessuale). Non essendo presente una definizione chiara di “Orientamento sessuale” l'aggravante sarebbe attribuita su base soggettiva, aggravante che è possibile solo su base oggettiva, relativamente, per esempio, all'aggressione a un pubblico ufficiale. In tal modo si violerebbe l'articolo 25 della Costituzione, ovvero la parte riguardante il principio di tassatività penale.
Sulla base di questo mi chiedo, ma già che ci siamo perché non eliminare i “privilegi” relativi la tutela dei minori, o a coloro che subiscono violenza, sotto qualsiasi forma, per motivi razziali, culturali o religiosi? Si, bisognerebbe fare qualche “piccola” modifica alla Costituzione, ma a quanto pare questo non è più un problema per una parte dei politici italiani. Il sassolino nella scarpa, non così tanto piccolo però, è costituito dall'Unione Europea che cerca di stabilire, malgrado la volontà di qualche suo stato membro, principi e diritti consoni al mutamento di valori e principi che sta coinvolgendo l'intera società.
Sulla base della seconda accusa sarebbe considerato più “costituzionale” (sarebbe più onesto parlare di naturale nel senso biologico del termine), inoltre, tutelare un rappresentante delle forze dell'ordine etero, che un libero cittadino omosessuale? Secondo la deputata del Pd Paola Binetti parrebbe di “si”.
In un'intervista al quotidiano Repubblica dello scorso 20 Ottobre 2009, infatti, la deputata ha affermato che “... in tutti i comportamenti ci sono limiti imposti dalla natura stessa. La comunità omosessuale è una realtà. Penso che nelle sue richieste travalichi spesso quei limiti. Sia chiaro: ha il diritto di chiedere, ma il legislatore ha diritto di non concedere”.
Da queste parole sembrerebbe che il cittadino ha diritto di chiedere protezione allo Stato, ma questi è libero di non concedere la protezione richiesta. Ma stiamo ancora parlando della Costituzione?
A voi le considerazioni
Lucrezia Scirè
AFFARI ESTERI

Obama, il Nobel preventivo

C’era una volta il primo Presidente degli Usa afro-americano, insignito del premio Nobel per la pace, dopo sette mesi di mandato. Detta così questa frase può davvero sembrare l’incipit di una favola per bambini, ma in realtà è tutto vero; eh si perché Barack Obama non solo è stato nominato Presidente degli Stati Uniti nel gennaio scorso, ma ha anche ricevuto l’ambitissimo premio per i suoi « sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli», come si legge nella motivazione pubblicata sul sito web del Comitato per il Nobel.

Che Obama sarebbe stata una figura “rivoluzionaria” nella storia statunitense e globale, era francamente prevedibile, non foss’altro che per lo straordinario spirito innovativo delle sue idee e per la capacità comunicativa, carica di sensibilità, con cui le veicola; ma da qui, a preveder il Nobel, ce ne passa.

All’atto pratico, Obama non ha certo ancora cambiato le cose: gli Usa e la coalizione dei volenterosi, continuano di fatto ad occupare militarmente Iraq ed Afghanistan, il presidente iraniano Ahmadinejad non ha di certo bloccato lo sviluppo del programma nucleare ed ancora il conflitto in Medioriente è ben lungi dall’essere solo un ricordo, così come il protocollo di Kyoto e la Convenzione internazionale per i diritti dell’infanzia sono, per ora, documenti disattesi dal Paese più potente del mondo, solo per citare alcuni esempi. E allora qual è il vero fattore di discontinuità rispetto al passato? Quale è la vera differenza? La differenza, forse, va rintracciata nel fatto che Obama sta tentando di mettere in atto una serie di risposte alternative a quelle in questi anni fin troppo abusate. E’ riuscito ad infondere nuova fiducia nelle relazioni internazionali attraverso l’arma bianca del dialogo.

Ha rispolverato gli strumenti “freddi” della diplomazia mondiale, da troppi anni ormai accantonati e messi al bando da coloro i quali, per convinzione o convenienza, gli avevano preferito quelli “caldi”, certamente più immediati, ma non di certo meno dispendiosi in termini materiali ed umani.

Ma soprattutto ha prepotentemente messo al centro dell’attenzione la necessità di rispondere a problemi globali, non già attraverso azioni unilaterali, bensì attraverso la diplomazia multilaterale, evidenziando in questo modo il ruolo che le Nazioni Unite e le altre Organizzazioni sovranazionali possono avere in un’ottica di cooperazione finalizzata a costruire un futuro più sostenibile.

E’ forse a questo punto più semplice intuire le motivazioni che hanno spinto il Comitato, a conferire il Nobel per la pace ad Obama. Si tratta di un premio predittivo, anticipatorio, un premio alle buone intenzioni, ma non certo immotivato, se letto in un ottica di medio/lungo raggio; è certamente, quella del Presidente statunitense una politica dalle non immediate conseguenze pratiche, ma dal valore simbolico in prospettiva estremamente potente, tanto più per il fatto che ci si trova di fronte ad una radicale svolta nell’azione di governo dei conflitti socio-politici, rispetto alla Amministrazione precedente.

Si è voluto dunque premiare l’orientamento ad una “pace preventiva” di Obama, che si pone in netta antitesi all’orientamento della “guerra preventiva”, propugnato a più riprese da G.W. Bush precedente inquilino della Casa Bianca; e premiando tale orientamento si è voluto riconoscere non solo ad Obama che questa è la strada giusta, ma si è anche voluto incoraggiare altri soggetti politici di responsabilità globale, ad intraprenderla e perseguirla.

Le congratulazioni “stupite” della maggior parte dei leader mondiali, denotano, forse, una certa reticenza nell’abbandonare lo strumento a dir poco paradossale, della guerra come mezzo di pacificazione; le ragioni sono sotto gli occhi di tutti: una guerra comporta il sovvertimento di uno status quo, l’ abbattimento di un “ordine”, che ovviamente deve essere ricostituito possibilmente ad immagine e somiglianza dell’Occidente globalizzato, ed è qui che entrano in gioco gli enormi interessi economici sottesi alla ricostruzione.

La pace è un investimento, ma con un tasso d’interesse (certamente variabile) ad altissimo coefficiente remunerativo, in termini culturali, sociali e perché no economici; Obama questo, forse lo ha capito.



di Andrea Caltagirone

LA PIRATERIA IN SOMALIA

Nell’ultimo anno l’interesse dei mass media riguardo il problema della pirateria sulle coste somale è cresciuto considerevolmente; si tratta di un fenomeno nuovo, o semplicemente di un continuum tra Occidente e Africa nel quale gli interessi economici sulle risorse primarie sono alla base delle dispute tra il più forte e il più debole?


Nel 2008 sono state attaccate 111 navi dai pirati somali che ne hanno catturato 42, incassando un centinaio di milioni di dollari. Nonostante le numerose navi da guerra schierate nell’area, il fenomeno non accenna a diminuire, poiché la difficoltà maggiore è quella di riuscire a coprire un’area marittima che si estende da Gibuti alle Coste del kenya. Dal 2005 molte organizzazioni internazionali, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio e L’Organizzazione Marittima, hanno espresso le loro preoccupazioni per i rischi economici e sociali causati dalla pirateria. Per contrastare questa minaccia è stata creata una task force navale internazionale denominata Combined Task Force 150, con il compito di contrastare militarmente l’azione dei pirati.


La pirateria al largo delle coste somale non è un fenomeno nuovo, ma è una minaccia costante alla navigazione tra Europa e Asia fin dalla rivoluzione civile somala dei primi anni novanta. La caduta del governo somalo ha causato degradazione e fame in tutto il paese. Molta della gente che viveva sulla costa sostiene, che nello stesso periodo della rivoluzione civile, navi europee hanno iniziato a comparire al largo delle coste della Somalia, svuotando grossi barili nell’Oceano. Numerosi abitanti si ammalarono, tanto che vennero messi al mondo bambini malformati. La maggior parte di queste scorie proveniva da ospedali e aziende europee, che sembravano essere affidate alla mafia affinché se ne liberasse in modo economico. Più di 300 milioni di tonno, gamberetti, aragoste e altri pesci venivano rubati ogni anno da pescherecci che navigavano illegalmente nelle acque somale. I pescatori locali avevano perso la loro fonte primaria di sostentamento.


Il leader libico Muhammar Ghweddafi, presidente di turno dell’Unione Africana, il giorno 6 febbraio del 2008, è sceso in campo a difesa dei pirati somali affermando che non si tratta di pirateria, ma di autodifesa. Nel giornale keniota “Daily Nation”, Gheddafi aggiunse che (la pirateria è una risposta all’avidità delle Nazioni Occidentali che invadono e sfruttano illegalmente le risorse delle acque territoriali somale)).


La pirateria è un atto criminale che non può essere giustificato, ma conoscere la storia che ha portato alla nascita di questo fenomeno può aiutare a comprendere fino a che punto gli esseri umani sono in grado di spingersi, a causa di quella sete economica che porta gli uomini a rincorrere il fantasma di quell’antica caccia all’oro ( le risorse primarie), all’interno di una cornice di degrado e povertà a cui spesso non si da importanza.


Sara Monsù


ANALISI DEI FENOMENI SOCIALI


Sicurezza: la distanza tra realtà e percezione della realtà


Sulla rivista del Ministero dell’Interno Amministrazione civile, in una ampia relazione, Bordigon e Diamanti sostengono la tesi secondo la quale dal 2000 ad oggi i reati sono in calo, mentre è aumentata la paura dei cittadini e il loro senso d’insicurezza.

Esiste dunque una distanza tra la realtà e la percezione della realtà che spinge molti a limitare la propria libertà per paura dell’altro. Giuseppa De Rita nel 34° Rapporto sulla situazione sociale del Paese parla di una “sensazione diffusa di paura” e di come questa sia percepita come “una emozione che supera la realtà”. Per spiegare tale fenomeno De Rita fa riferimento alla “molecolarizzazione della società” che, tradotto, significa: siamo più emotivi perché più soli, più liberi e più ricchi. Questo paradosso è provato dal fatto che l’angoscia per la criminalità è più grande nel Nord-Est del benessere rispetto al Meridione che non gode degli stessi livelli di ricchezza.

“Il denaro è l’essenza, fatta estranea all’uomo, del suo lavoro della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli lo adora”, così il giovane Marx, ancora fortemente influenzato dalla sinistra Hegeliana, nel saggio La questione ebraica individua nel denaro la causa principale della deumanizzazione dei rapporti sociali, determinato da un processo di oggettivazione dello spirito degli uomini. A questa interpretazione del grande filosofo, si riscontra una certa plausibilità con l’odierna società, dove alla base c’è sempre il valore centrale del denaro, vale a dire laddove prevale la logica dell’accumulazione, il territorio, che poi è il deposito di quegli usi, costumi e tradizioni che rendono fiduciario il rapporto fra gli uomini, rischia di sfaldarsi. Il denaro, infatti, avendo libertà di circolazione trans-territoriale, misconosce territori, confini e frontiere che, insieme alla legge, sono stati, fino ad oggi, le maggiori garanzie della sicurezza. E questo non perché, come sostengono alcuni, sono arrivati romeni, albanesi, cinesi, magrhebini, ma perché uno dei risvolti negativi della globalizzazione economica è la de-territorializzazione umana. La globalizzazione, infatti, come ci fa notare Saskia Sassen nel saggio Città globali, tende a concepire le città come luoghi di scambi, concentrazioni di funzioni di comando dell’economia, più che come luoghi di abitazione e di radicamento, per cui nasce la percezione diffusa di abitare in agglomerati sconosciuti, che non hanno tra loro alcun rapporto di fiduciario, e tra i quali rischia di prevalere una sospettosità diffusa che concorre ad annullare ogni vincolo di solidarietà. Ma se i cittadini percepiscono un’insicurezza maggiore di quella documentata dai fatti, allora siamo in presenza di una paura che va oltre i quotidiani delitti e precisamente nel fatto che il territorio non si garantisce soltanto con il controllo delle forze dell’ordine, ma rinsaldando quel tessuto sociale, depositario di usi costumi e tradizioni che rendono fiduciario il rapporto con il prossimo.

di Angelo Ceccarelli


Giovani e criminali in Tv: il limite che non c’è


Romanzo criminale il film, come la serie televisiva sono stati un successo ed è un dato di fatto: i fan club su Facebook impazzano, le critiche della stampa sono tutte più che positive. Per questo motivo Rai Cinema e Cattleya hanno deciso di far girare a Stefano Sollima altre dodici puntate per fare una seconda serie della fiction.

Il sindaco della capitale Gianni Alemanno ha parlato di Romanzo Criminale come causa aggravante della violenza nelle periferie: “anche operazioni culturali come la serie tv Romanzo criminale o altre simili non hanno aiutato, ma hanno lanciato atteggiamenti e modi di fare sbagliati. I giovani non vanno lasciati soli e faremo di tutto per stare nelle periferie”. Una simile dichiarazione non poteva che sollevare polemiche. Riccardo Tozzi, produttore di Romanzo criminale la serie, parla della fiction come di una cartina tornasole che ha il solo difetto di rappresentare la realtà: “questo tipo di osservazioni sono periodiche, ma la tv semmai riflette quello che c’è in giro, non crea nulla”, e ricorda “reprimere la rappresentazione della violenza non significa annullarla nella realtà, ma semmai moltiplicarla”. C’è da domandarsi se sia stata proprio quella serie in TV a scatenare un surplus di violenza nei giovani. Da decine di anni si vedono sulle televisioni delle nostre case film e serie televisive saturi di ferocia e disumanità con il sangue e la violenza che scorrono a fiumi. Quindi, se si volesse attribuire la colpa di tutto ciò alla televisione e ai suoi contenuti si dovrebbe imputare la colpa dell’aumento del consumo di cocaina al film Carlito's way o Scarface, gli incidenti stradali a Fast and Furious, le violenze sessuali a Rocco Siffredi.

Da sempre leggiamo libri, riviste, fumetti, ascoltiamo musica, guardiamo tv e cinema, giochiamo con videogame ricchi di contenuti a volte forti per non dire violenti.


C’è da fare allora un atto di coraggio: affermiamo che per la maggioranza dei casi il problema della grave perdita di valori della gioventù non sia tanto da imputare alla televisione, quanto piuttosto dell'ambiente familiare incapace di fare fronte alla sconcertante perdita di senso di interessi e di vitalità da parte dei giovani.

Che i ragazzi siano facilmente plagiabili dal mezzo televisivo è fuori discussione, ma dare tutta la colpa ai media o a certi prodotti mediali sembra superficiale e troppo semplicistico. E’ evidente invece che oggi troppo spesso manchi un tessuto familiare che sia in grado di trasmettere ai giovani dei valori quali: il rispetto comune, la solidarietà, la collettività. Insomma, i media sono solo una parte del problema, ma non tutto. E’ necessario discutere con i propri figli, creare un ambiente familiare favorevole e ben disposto al dialogo. Avere il coraggio di toccare con il dibattito in famiglia ogni argomento, solo così si arriverà a far capire ai propri figli che può e deve esserci una differenza tra guardare Romanzo Criminale e diventare un criminale da romanzo. L’educazione spetta ai genitori, non solo alla tv.


Angelo Ceccarelli

OLTRE IL CRIMINE


Turismo criminale: siamo andati oltre i limiti?

File interminabili fuori dai tribunali, appostamenti nei pressi del luogo del delitto, interesse quasi ossessivo verso episodi di cronaca nera, non tutti sanno che l’insieme di questi elementi ha permesso l’evolversi di un nuovo fenomeno: il turismo criminale.

Le origini del turismo criminale risalgono agli orrori che erano presumibilmente avvenuti nel castello del dottor H.H.Holmes a Chicago nel 1985; ben cinquemila persone si recarono in quell’edificio, sperando di poter vedere quelle che i giornali avevano definito “celle delle torture”, “camere a gas sotterranee” e “stanze dei cadaveri”. Rendendosi conto del potenziale guadagno che si poteva ricavare da questo interesse morboso nei confronti del crimine, nacque questa nuova forma di turismo1.

Una pratica molto diffusa è quella del collezionismo, c’è chi si dedica all’acquisto di oggetti appartenenti a criminali, ormai facilmente reperibili attraverso siti Internet. Tuttavia, al di là del progresso tecnologico, non c’è nulla di nuovo in questo fenomeno; la spettacolarizzazione e l’eroicizzazione della violenza purtroppo esistono da sempre, basta pensare ai criminali crocifissi sulla via Appia nell’antica Roma o ai cadaveri dei fuorilegge esposti nelle vetrine dei negozi.

Non tutti, fortunatamente, ritengono divertente una gita in un posto dove probabilmente sono stati uccisi dei bambini, degli adolescenti torturati o con dei resti di cadaveri femminili stuprati e uccisi.
Per coloro che sono interessati a giri turisti macabri, lo scrittore americano Neal S. Yonover ha redatto “Crime Scene”, una vera e propria guida turistica che fornisce descrizioni, percorsi e altre informazioni riguardanti tutti i siti del paese in cui sono avvenuti famosi omicidi.

In Italia, non credo siano state pubblicate guide turistiche, ma il fenomeno comunque è in crescita. Gli esempi più clamorosi sono stati: il caso di Cogne, il processo di Garlasco, il processo di Erba, dove i protagonisti sono Olindo Romano e Rosa Bazzi, oppure il più recente omicidio di Perugia, dove è stata assassinata la studentessa inglese Meredhit Kerkher.

Altro fenomeno che purtroppo è presente non solo in America, ma anche in Italia, è quello degli ammiratori o ammiratrici che vedono nei colpevoli dei veri e propri idoli, degli esempi da imitare per la tenacia e la forza che hanno dimostrato prima e dopo l’emissione della condanna; ne sono un esempio le lettere che giornalmente riceve Erika De Nardo, la sedicenne di Novi Ligure che nel 2001 insieme al ragazzo uccise madre e fratello, oppure le lettere di ammiratori che riceve Amanda Knox, accusata dell’omicidio della studentessa inglese di Perugia.

Da queste informazioni è chiaro che emergono tanti “perché” e tanti spunti di riflessione. Come al solito non è opportuno generalizzare, perché non tutti sono colpiti da questa particolare forma di ossessione, ma è anche vero che questi nomi ormai fanno parte della nostra quotidianità. Non siamo ancora arrivati ai livelli americani che pubblicizzano i volti dei serial killer su oggetti vari di uso domestico, ma occorre domandarsi se un commercio simile sia legale e se alcuni siti Internet vadano censurati o meno.
Una domanda da porsi è questa:” Credete che sia stato superato qualche limite?”. Se così fosse non è il solo, non occorre affidarsi a qualche oracolo per trovare una risposta a tutto questo.


Clizia Piras