mercoledì 18 novembre 2009
Resoconto Assemblea di Facoltà
venerdì 6 novembre 2009
Sulla base di questo mi chiedo, ma già che ci siamo perché non eliminare i “privilegi” relativi la tutela dei minori, o a coloro che subiscono violenza, sotto qualsiasi forma, per motivi razziali, culturali o religiosi? Si, bisognerebbe fare qualche “piccola” modifica alla Costituzione, ma a quanto pare questo non è più un problema per una parte dei politici italiani. Il sassolino nella scarpa, non così tanto piccolo però, è costituito dall'Unione Europea che cerca di stabilire, malgrado la volontà di qualche suo stato membro, principi e diritti consoni al mutamento di valori e principi che sta coinvolgendo l'intera società.
Sulla base della seconda accusa sarebbe considerato più “costituzionale” (sarebbe più onesto parlare di naturale nel senso biologico del termine), inoltre, tutelare un rappresentante delle forze dell'ordine etero, che un libero cittadino omosessuale? Secondo la deputata del Pd Paola Binetti parrebbe di “si”.
In un'intervista al quotidiano Repubblica dello scorso 20 Ottobre 2009, infatti, la deputata ha affermato che “... in tutti i comportamenti ci sono limiti imposti dalla natura stessa. La comunità omosessuale è una realtà. Penso che nelle sue richieste travalichi spesso quei limiti. Sia chiaro: ha il diritto di chiedere, ma il legislatore ha diritto di non concedere”.
Da queste parole sembrerebbe che il cittadino ha diritto di chiedere protezione allo Stato, ma questi è libero di non concedere la protezione richiesta. Ma stiamo ancora parlando della Costituzione?
A voi le considerazioni
Lucrezia Scirè
C’era una volta il primo Presidente degli Usa afro-americano, insignito del premio Nobel per la pace, dopo sette mesi di mandato. Detta così questa frase può davvero sembrare l’incipit di una favola per bambini, ma in realtà è tutto vero; eh si perché Barack Obama non solo è stato nominato Presidente degli Stati Uniti nel gennaio scorso, ma ha anche ricevuto l’ambitissimo premio per i suoi « sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli», come si legge nella motivazione pubblicata sul sito web del Comitato per il Nobel.
Che Obama sarebbe stata una figura “rivoluzionaria” nella storia statunitense e globale, era francamente prevedibile, non foss’altro che per lo straordinario spirito innovativo delle sue idee e per la capacità comunicativa, carica di sensibilità, con cui le veicola; ma da qui, a preveder il Nobel, ce ne passa.
All’atto pratico, Obama non ha certo ancora cambiato le cose: gli Usa e la coalizione dei volenterosi, continuano di fatto ad occupare militarmente Iraq ed Afghanistan, il presidente iraniano Ahmadinejad non ha di certo bloccato lo sviluppo del programma nucleare ed ancora il conflitto in Medioriente è ben lungi dall’essere solo un ricordo, così come il protocollo di Kyoto e la Convenzione internazionale per i diritti dell’infanzia sono, per ora, documenti disattesi dal Paese più potente del mondo, solo per citare alcuni esempi. E allora qual è il vero fattore di discontinuità rispetto al passato? Quale è la vera differenza? La differenza, forse, va rintracciata nel fatto che Obama sta tentando di mettere in atto una serie di risposte alternative a quelle in questi anni fin troppo abusate. E’ riuscito ad infondere nuova fiducia nelle relazioni internazionali attraverso l’arma bianca del dialogo.
Ha rispolverato gli strumenti “freddi” della diplomazia mondiale, da troppi anni ormai accantonati e messi al bando da coloro i quali, per convinzione o convenienza, gli avevano preferito quelli “caldi”, certamente più immediati, ma non di certo meno dispendiosi in termini materiali ed umani.
Ma soprattutto ha prepotentemente messo al centro dell’attenzione la necessità di rispondere a problemi globali, non già attraverso azioni unilaterali, bensì attraverso la diplomazia multilaterale, evidenziando in questo modo il ruolo che le Nazioni Unite e le altre Organizzazioni sovranazionali possono avere in un’ottica di cooperazione finalizzata a costruire un futuro più sostenibile.
E’ forse a questo punto più semplice intuire le motivazioni che hanno spinto il Comitato, a conferire il Nobel per la pace ad Obama. Si tratta di un premio predittivo, anticipatorio, un premio alle buone intenzioni, ma non certo immotivato, se letto in un ottica di medio/lungo raggio; è certamente, quella del Presidente statunitense una politica dalle non immediate conseguenze pratiche, ma dal valore simbolico in prospettiva estremamente potente, tanto più per il fatto che ci si trova di fronte ad una radicale svolta nell’azione di governo dei conflitti socio-politici, rispetto alla Amministrazione precedente.
Si è voluto dunque premiare l’orientamento ad una “pace preventiva” di Obama, che si pone in netta antitesi all’orientamento della “guerra preventiva”, propugnato a più riprese da G.W. Bush precedente inquilino della Casa Bianca; e premiando tale orientamento si è voluto riconoscere non solo ad Obama che questa è la strada giusta, ma si è anche voluto incoraggiare altri soggetti politici di responsabilità globale, ad intraprenderla e perseguirla.
Le congratulazioni “stupite” della maggior parte dei leader mondiali, denotano, forse, una certa reticenza nell’abbandonare lo strumento a dir poco paradossale, della guerra come mezzo di pacificazione; le ragioni sono sotto gli occhi di tutti: una guerra comporta il sovvertimento di uno status quo, l’ abbattimento di un “ordine”, che ovviamente deve essere ricostituito possibilmente ad immagine e somiglianza dell’Occidente globalizzato, ed è qui che entrano in gioco gli enormi interessi economici sottesi alla ricostruzione.
La pace è un investimento, ma con un tasso d’interesse (certamente variabile) ad altissimo coefficiente remunerativo, in termini culturali, sociali e perché no economici; Obama questo, forse lo ha capito.
di Andrea Caltagirone
Nell’ultimo anno l’interesse dei mass media riguardo il problema della pirateria sulle coste somale è cresciuto considerevolmente; si tratta di un fenomeno nuovo, o semplicemente di un continuum tra Occidente e Africa nel quale gli interessi economici sulle risorse primarie sono alla base delle dispute tra il più forte e il più debole?
Nel 2008 sono state attaccate 111 navi dai pirati somali che ne hanno catturato 42, incassando un centinaio di milioni di dollari. Nonostante le numerose navi da guerra schierate nell’area, il fenomeno non accenna a diminuire, poiché la difficoltà maggiore è quella di riuscire a coprire un’area marittima che si estende da Gibuti alle Coste del kenya. Dal 2005 molte organizzazioni internazionali, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio e L’Organizzazione Marittima, hanno espresso le loro preoccupazioni per i rischi economici e sociali causati dalla pirateria. Per contrastare questa minaccia è stata creata una task force navale internazionale denominata Combined Task Force 150, con il compito di contrastare militarmente l’azione dei pirati.
La pirateria al largo delle coste somale non è un fenomeno nuovo, ma è una minaccia costante alla navigazione tra Europa e Asia fin dalla rivoluzione civile somala dei primi anni novanta. La caduta del governo somalo ha causato degradazione e fame in tutto il paese. Molta della gente che viveva sulla costa sostiene, che nello stesso periodo della rivoluzione civile, navi europee hanno iniziato a comparire al largo delle coste della Somalia, svuotando grossi barili nell’Oceano. Numerosi abitanti si ammalarono, tanto che vennero messi al mondo bambini malformati. La maggior parte di queste scorie proveniva da ospedali e aziende europee, che sembravano essere affidate alla mafia affinché se ne liberasse in modo economico. Più di 300 milioni di tonno, gamberetti, aragoste e altri pesci venivano rubati ogni anno da pescherecci che navigavano illegalmente nelle acque somale. I pescatori locali avevano perso la loro fonte primaria di sostentamento.
Il leader libico Muhammar Ghweddafi, presidente di turno dell’Unione Africana, il giorno 6 febbraio del 2008, è sceso in campo a difesa dei pirati somali affermando che non si tratta di pirateria, ma di autodifesa. Nel giornale keniota “Daily Nation”, Gheddafi aggiunse che (la pirateria è una risposta all’avidità delle Nazioni Occidentali che invadono e sfruttano illegalmente le risorse delle acque territoriali somale)).
La pirateria è un atto criminale che non può essere giustificato, ma conoscere la storia che ha portato alla nascita di questo fenomeno può aiutare a comprendere fino a che punto gli esseri umani sono in grado di spingersi, a causa di quella sete economica che porta gli uomini a rincorrere il fantasma di quell’antica caccia all’oro ( le risorse primarie), all’interno di una cornice di degrado e povertà a cui spesso non si da importanza.
Sara Monsù
ANALISI DEI FENOMENI SOCIALI
Sicurezza: la distanza tra realtà e percezione della realtà
Sulla rivista del Ministero dell’Interno Amministrazione civile, in una ampia relazione, Bordigon e Diamanti sostengono la tesi secondo la quale dal 2000 ad oggi i reati sono in calo, mentre è aumentata la paura dei cittadini e il loro senso d’insicurezza.
Esiste dunque una distanza tra la realtà e la percezione della realtà che spinge molti a limitare la propria libertà per paura dell’altro. Giuseppa De Rita nel 34° Rapporto sulla situazione sociale del Paese parla di una “sensazione diffusa di paura” e di come questa sia percepita come “una emozione che supera la realtà”. Per spiegare tale fenomeno De Rita fa riferimento alla “molecolarizzazione della società” che, tradotto, significa: siamo più emotivi perché più soli, più liberi e più ricchi. Questo paradosso è provato dal fatto che l’angoscia per la criminalità è più grande nel Nord-Est del benessere rispetto al Meridione che non gode degli stessi livelli di ricchezza.
“Il denaro è l’essenza, fatta estranea all’uomo, del suo lavoro della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli lo adora”, così il giovane Marx, ancora fortemente influenzato dalla sinistra Hegeliana, nel saggio La questione ebraica individua nel denaro la causa principale della deumanizzazione dei rapporti sociali, determinato da un processo di oggettivazione dello spirito degli uomini. A questa interpretazione del grande filosofo, si riscontra una certa plausibilità con l’odierna società, dove alla base c’è sempre il valore centrale del denaro, vale a dire laddove prevale la logica dell’accumulazione, il territorio, che poi è il deposito di quegli usi, costumi e tradizioni che rendono fiduciario il rapporto fra gli uomini, rischia di sfaldarsi. Il denaro, infatti, avendo libertà di circolazione trans-territoriale, misconosce territori, confini e frontiere che, insieme alla legge, sono stati, fino ad oggi, le maggiori garanzie della sicurezza. E questo non perché, come sostengono alcuni, sono arrivati romeni, albanesi, cinesi, magrhebini, ma perché uno dei risvolti negativi della globalizzazione economica è la de-territorializzazione umana. La globalizzazione, infatti, come ci fa notare Saskia Sassen nel saggio Città globali, tende a concepire le città come luoghi di scambi, concentrazioni di funzioni di comando dell’economia, più che come luoghi di abitazione e di radicamento, per cui nasce la percezione diffusa di abitare in agglomerati sconosciuti, che non hanno tra loro alcun rapporto di fiduciario, e tra i quali rischia di prevalere una sospettosità diffusa che concorre ad annullare ogni vincolo di solidarietà. Ma se i cittadini percepiscono un’insicurezza maggiore di quella documentata dai fatti, allora siamo in presenza di una paura che va oltre i quotidiani delitti e precisamente nel fatto che il territorio non si garantisce soltanto con il controllo delle forze dell’ordine, ma rinsaldando quel tessuto sociale, depositario di usi costumi e tradizioni che rendono fiduciario il rapporto con il prossimo.
di Angelo Ceccarelli