martedì 19 maggio 2009

ANALISI DEI FENOMENI SOCIALI

L’ossessione dell’invasione: l’immigrazione in Italia fra etnocentrismo, pregiudizi e stereotipi

L’Italia, comunemente ritenuta un paese di emigrazione (e che continua ad esserlo), è diventata negli ultimi decenni un grande paese di immigrazione; si è infatti verificato un continuo aumento degli arrivi e di conseguenza delle presenze in Italia. A partire dagli anni Ottanta, il nostro paese è andato configurandosi come una società multietnica, costituita da individui provenienti da ogni parte del mondo con la speranza di una vita migliore per sé e i propri figli. Secondo le stime dei sociologi, l’immigrazione italiana ha ormai largamente superato i quattro milioni di unità, a cui è seguito un ininterrotto variare delle nazionalità dei soggetti in entrata nel nostro Paese. I dati Istat rivelano che gli stranieri residenti in Italia sono passati, tra il 2002 e il 2007, da 1.549.373 a 3.432.651. Probabilmente, il divario numerico tra le stime dei sociologi e i dati Istat deriva dal fatto che ancora molti immigrati sono in attesa di essere regolarizzati e di ricevere la residenza anagrafica.
Il fenomeno dell’immigrazione pone, inevitabilmente, problemi di convivenza tra etnie diverse. Da un lato si riscontra una difficoltà di adattamento da parte degli immigrati in un nuovo contesto culturale, cui si aggiunge l’incomprensione della lingua e problemi di tipo economico. Dall’altro sono associati problemi riguardanti la scarsa disponibilità all’accettazione e all’integrazione da parte della comunità ospitante. Infatti, nella maggior parte dei casi, gli immigrati sono considerati dal Paese in cui giungono come intrusi e pericolosi, responsabili dell’aumento della disoccupazione e della criminalità; a ciò seguono talvolta crescenti atteggiamenti di discriminazione ed esclusione e, purtroppo, sempre di più si riscontra aperta ostilità, violenza e razzismo. Secondo i dati del Viminale, i tassi di criminalità degli italiani e stranieri regolari sono pressoché gli stessi. Questo, forse, rende chiaro che il problema è legato all’integrazione degli strati più poveri e non regolari del flusso migratorio. Tuttavia, il processo di incontro etnico-culturale non è mai facile, né immediato, come viene tra l’altro spiegato da molte teorie della psicologia sociale: visioni etnocentriche, pregiudizi e stereotipi sono spesso il risultato di molteplici fattori che hanno origine storica, culturale, sociale ed individuale. E con questi vanno a braccetto da un lato i mezzi di comunicazione che, agendo sui meccanismi emotivi, forniscono modelli per la formazione degli stereotipi. Dall’altro lato, e per gli stessi motivi, la politica, attraverso una tematizzazione del problema dell’immigrazione, che troppo spesso manca il bersaglio. Ma la faccenda è sotto i nostri occhi, e non bisogna essere psicologo o sociologo per capire che la comunità ospitante pone dei limiti, legati a motivi culturali, religiosi, linguistici ed economici, verso coloro che sono ritenuti diversi. E come sta accadendo nel nostro Paese, non c’è rispetto nemmeno degli accordi internazionali. L’attuale governo si dimentica che gran parte dell’immigrazione in Italia arriva con l’aereo a Fiumicino o con il bus alla Stazione Tiburtina e non dal mare. I flussi non si fermano rispedendo barconi carichi di profughi in Libia. Il problema reale è che in Italia per le politiche destinate all’immigrazione si spende una cifra irrisoria rispetto ai paesi europei colpiti dal problema, come la Spagna. E questi fondi sono per l’80% spesi per politiche di repressione o respingimento, e solo il 20% per politiche di integrazione. Pochi, troppo pochi.
Angelo Ceccarelli

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