domenica 10 maggio 2009

POLITICA ESTERA

Il Ruanda si tinge di rosa?


Il rapporto Unicef 2007, sul tema delle “quote rosa” in politica, rivela che a livello mondiale la Repubblica del Ruanda è al primo posto per la presenza di donne in parlamento. Questo piccolo paese africano sembra essere il più democratico in termini di rappresentanza politica. Ma le cifre spesso possono ingannare.
In Ruanda, nel mese di ottobre del 2003, le donne hanno ottenuto il 48,8% dei seggi, senza ottenere la maggioranza in parlamento; il nuovo progetto però è stato concordato dalle élitè politiche e le consultazioni sono avvenute attraverso la partecipazione della popolazione in parte analfabeta. Naturalmente una simile situazione era impensabile pochi anni prima. Nel periodo della guerra civile degli anni ’90 e del genocidio del ’94, le donne Ruandesi avevano avuto solo il 19% dei seggi in Parlamento. Nel 1994 il genocidio è stato perpetrato dagli estremisti hutu contro la minoranza dei tutsi e degli hutu moderati. Secondo le stime ci sono state 800.000 vittime(un decimo della popolazione). Un rapporto delle Nazioni Unite ha concluso che durante il genocidio 250.000 donne ruandesi sono state sistematicamente stuprate. Le violenze, per lo più compiute da molti uomini in successione, sono state spesso accompagnate da forme di tortura fisica ed eseguite pubblicamente per moltiplicare il terrore e la degradazione. Molte donne li temevano a tal punto da implorare di essere uccise. L’elevata diffusione dell’Aids aveva condannato le sopravvissute ad una lenta e dolorosa agonia. Durante il periodo del genocidio il governo aveva reclutato negli ospedali, tra i malati di Aids, veri e propri battaglioni di stupratori con l’intento di diffondere sistematicamente la malattia. Quando finì il massacro(durato circa cento giorni) si contarono i superstiti, l’ONU scoprì che il 60-70% della popolazione era di sesso femminile.

Un rapporto commissionato nel 2003 dagli Stati Uniti “International Devolopment” (USAID), ha riconosciuto in Pro-Femmes il “settore più vivace”della società civile. L’associazione Pro-femmes era nata nel 1992, nel periodo di democratizzazione dell’Africa, su iniziativa di 13 associazioni ruandesi con lo scopo di promuovere il ruolo delle donne. Mathilde Kaytesi, vice presidente di Pro-femmes, racconta: “nel ’94-’97 in Ruanda c’erano solo donne, gli uomini erano morti in guerra, imprigionati o fuggiti. Le donne hanno preso in mano la situazione, hanno gestito e ricostruito il paese: le case e gli alloggi. Esse hanno offerto sostegno immediato ai molti bambini esausti, malati e gravemente soli. Hanno assunto il controllo diventando mamme dei bambini orfani a prescindere dalla loro provenienza etnica. Ciò può far sembrare che sia in atto un processo di emancipazione femminile, ma la situazione è molto complessa, a fronte di una enorme esposizione femminile c’è soprattutto il problema che quello che è realmente sulla carta sia realmente applicato e tutt’oggi la cultura è fortemente radicata “.

Numerose sono ancora le problematiche da superare: il tasso di analfabetismo risulta essere molto alto tra le donne e la persistenza di barriere socioculturali non permette di fatto l’accesso all’istruzione formale e informale; diffusa è anche la pratica dei matrimoni forzati per le ragazze intorno ai 17 anni costrette a sposare il marito scelto dai genitori, ma ancora più grave è l’impossibilità da parte delle donne di sottrarsi all’obbligo di avere rapporti sessuali con il marito qualora fosse malato di Aids.

In Ruanda ci sono delle verità che non si vogliono far uscire o che è difficile e doloroso far emergere. Le donne possono avere un ruolo fondamentale perché sono state spettatrici e vittime, e possono essere ottime giudici e testimoni, ma dovrà essere superata la debolezza del sistema giudiziario ruandese che continua di fatto a ostacolare le indagini e l’azione penale nei confronti dei reati di violenza. Si perpetua così una società arretrata ma apparentemente democratica, nella quale le candidate donne in realtà molte volte vengono cooptate da mariti-ministro, compagni parlamentari e parenti con il compito di salvaguardare lo status quo, impedendo alle donne comuni di emanciparsi e ribellarsi al dominio maschile. Non sempre, quindi, i valori della democrazia e della libertà, soprattutto se teorizzati e scritti nella Costituzione ma mai realizzati, aprono realmente la strada ad un’equa rappresentanza politica.


Sara Monsù

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